Un tifone di eccezionale violenza si è abbattuto in questi giorni su ampie zone dell'Asia orientale: le Filippine, l'isola di Taiwan, Hong Kong, la regione cinese del Guangdong e il Vietnam. Davanti a una tragedia umanitaria di questa portata, il messaggio del Santo Padre è stato, come sempre, improntato alla vicinanza spirituale e alla solidarietà verso le popolazioni colpite. Ma in quelle poche frasi, pronunciate durante l'Angelus, si cela un dettaglio di portata ben più ampia, che tocca i delicati equilibri della geopolitica vaticana: il Papa ha parlato di "isola di Taiwan" e non, come da prassi diplomatica consolidata, di "Repubblica di Cina".
Una sfumatura, certo, ma le sfumature sono la sostanza della diplomazia. E nel contesto dei rapporti tra Santa Sede, Repubblica Popolare Cinese e Taiwan, ogni parola pesa come un macigno.
Una questione di riconoscimento
La Santa Sede è oggi uno dei pochissimi Stati al mondo che mantiene rapporti ufficiali con Taiwan, erede della vecchia Repubblica di Cina che si rifugiò sull'isola dopo la vittoria comunista del 1949. Dal 1971, anno in cui la Cina continentale ottenne il seggio permanente all'ONU, il posto di nunzio apostolico a Taipei è rimasto vacante: la sede è presidiata solo da un incaricato d'affari, segno tangibile di un legame istituzionale mantenuto, ma in forma attenuata.
In linea teorica, il protocollo avrebbe suggerito di riferirsi alle devastazioni del tifone menzionando la "Repubblica di Cina", formula che corrisponde alla denominazione ufficiale riconosciuta dalla Santa Sede. Invece il Papa ha scelto un'espressione neutra: "isola di Taiwan". Un dettaglio che non equivale a un riconoscimento della sovranità cinese, ma che, nello stesso tempo, evita di ribadire apertamente il sostegno a Taipei. È un linguaggio che fotografa la realtà: la posizione di Taiwan agli occhi della Santa Sede si va progressivamente indebolendo.
Una Chiesa tra due fuochi
Il motivo di questo spostamento lessicale non è difficile da intuire. La Chiesa cattolica in Cina vive una situazione complessa e fragile. Da un lato, la Santa Sede desidera garantire la libertà pastorale dei vescovi e dei fedeli, spesso divisi tra la comunità "ufficiale" riconosciuta da Pechino e quella "sotterranea" rimasta fedele a Roma. Dall'altro lato, il governo cinese rivendica un controllo stretto sulle religioni, considerate strumenti potenzialmente destabilizzanti per l'ordine sociale.
Dal 2018 è in vigore un accordo provvisorio tra Vaticano e Cina sulla nomina dei vescovi, rinnovato più volte, che rappresenta un tentativo di trovare un equilibrio. Tuttavia, il rischio per la Santa Sede è duplice: perdere l'influenza pastorale sui milioni di fedeli cattolici cinesi, o lasciare spazio alle tante sette pseudo-religiose che proliferano in Asia, capaci di attrarre persone in cerca di spiritualità autentica ma prive di radici solide.
È chiaro dunque che Roma non può ignorare la Cina continentale a lungo. Sarebbe un errore strategico enorme.
Il caso Taiwan: una fedeltà che vacilla
Taiwan ha sempre visto nella Santa Sede un alleato prezioso. Non solo per la valenza spirituale, ma anche come segnale politico: essere riconosciuti da uno Stato con la statura morale del Vaticano conferisce una legittimità internazionale che pochi altri partner possono garantire. Tuttavia, i segnali degli ultimi anni non sono incoraggianti.
Il Papa, con la sua scelta di parole, ha lasciato intendere che la Santa Sede non vuole più essere percepita come parte in causa nello scontro sulla sovranità di Taiwan. La definizione di "isola" depoliticizza, riduce la valenza statuale e colloca l'evento — un tifone — in una cornice geografica più che politica. È un passo simbolico, ma chi conosce le dinamiche diplomatiche sa bene che i simboli sono premonitori di cambiamenti futuri.
Una possibile via d'uscita: Macao
Quale potrebbe essere allora un compromesso che permetta al Vaticano di non abbandonare del tutto Taiwan, ma al tempo stesso di avvicinarsi alla Repubblica Popolare Cinese?
Una soluzione potrebbe essere la riapertura di una nunziatura a Macao, regione amministrativa speciale con una lunga storia cattolica, ex colonia portoghese e oggi parte integrante della Cina secondo la formula "un Paese, due sistemi". Macao rappresenta un terreno neutrale, meno esposto delle tensionatissime Hong Kong e Taipei, e allo stesso tempo un ponte naturale con la Cina continentale.
La scelta di Macao avrebbe almeno tre vantaggi strategici : Legittimazione reciproca – Il Vaticano dimostrerebbe apertura verso Pechino, senza rompere brutalmente con Taiwan ;Prossimità pastorale – Essere presenti in una regione a forte identità cattolica permetterebbe di seguire più da vicino la condizione dei fedeli in tutta la Cina meridionale. Valore simbolico – Macao, con la sua storia di incontro tra Oriente e Occidente, incarnerebbe perfettamente la missione universale della Chiesa.
Tra realpolitik e missione evangelica
Il caso Taiwan mostra in maniera plastica la tensione tra realpolitik e missione evangelica. Da un lato, il Vaticano deve muoversi come soggetto politico internazionale, negoziando con la Cina una presenza che garantisca la libertà religiosa. Dall'altro, non può tradire la fedeltà di comunità cattoliche come quella taiwanese, che hanno mantenuto un legame vivo e riconoscente con Roma per decenni.
Il Papa ha scelto la via della sfumatura, della parola calibrata: "isola di Taiwan". Un segnale che la Chiesa non intende schierarsi apertamente nella contesa sulla sovranità, ma che vuole continuare a restare presente in Asia con uno sguardo universale, non divisivo.
Marco Baratto
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