Il grido di Gesù sulla croce — «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» — continua a risuonare con una forza straordinaria, non solo nella vita personale dei credenti, ma anche nelle tensioni che segnano il nostro tempo. Come ha ricordato Leone nella sua catechesi, quel grido non è disperazione ma fiducia portata al limite: il Figlio, che ha sempre vissuto in intima comunione con il Padre, si affida anche nel momento del silenzio e dell'abisso.
Parole che assumono un significato ancor più drammatico se lette accanto all'appello rivolto ai fedeli di lingua araba, in particolare a quelli provenienti dalla Terra Santa: «Vi invito a trasformare il vostro grido nei momenti di prova e tribolazione in una preghiera fiduciosa, perché Dio ascolta sempre i suoi figli e risponde nel momento che ritiene migliore per noi».
In una regione segnata da conflitti ricorrenti, tensioni geopolitiche e fragili equilibri, questo invito ha una portata che va oltre la sfera spirituale. La Terra Santa non è solo culla del cristianesimo: è anche epicentro di dinamiche globali che coinvolgono interessi economici, militari e culturali. Qui, il grido dei popoli — palestinesi, israeliani, cristiani, musulmani, ebrei — si intreccia con la geopolitica, trasformando il dolore quotidiano in un tema che interroga la comunità internazionale.
Il messaggio di Leone non cancella le ferite della storia, ma le illumina di una prospettiva diversa. Nel Medio Oriente, dove la logica della forza sembra avere sempre l'ultima parola, l'invito a trasformare il grido in preghiera fiduciosa rappresenta una sfida radicale. È la proposta di un linguaggio alternativo, che non ignora la realtà ma la trasfigura: dalla logica della vendetta a quella della speranza, dall'abisso della divisione alla ricerca di una comunione possibile.
La geopolitica contemporanea è segnata da interessi incrociati: potenze globali che intervengono nella regione, alleanze che mutano, conflitti che si riaccendono. In questo contesto, le comunità cristiane locali, spesso minoranze, vivono una condizione di precarietà. Il loro grido non è soltanto spirituale, ma anche politico: riguarda la libertà di vivere la propria fede, il diritto di rimanere nella terra dei padri, la richiesta di essere riconosciuti come parte integrante del tessuto sociale e culturale della regione.
Eppure, la risposta proposta non è quella delle armi, né delle strategie geopolitiche. È la via della preghiera, che non significa passività, ma scelta di resistenza spirituale e civile. La preghiera diventa allora un atto politico nel senso più alto: un'affermazione di dignità, un rifiuto della logica della violenza, un richiamo a un ordine diverso rispetto a quello imposto dai rapporti di forza.
Il grido di Gesù sulla croce, assunto come modello, diventa un paradigma per comprendere la sofferenza dei popoli della Terra Santa e, più in generale, delle regioni martoriate dal conflitto. Quel grido è l'espressione della verità senza filtri, ma anche di una fiducia che non si spegne. È la testimonianza che si può attraversare il silenzio di Dio senza smarrire la fede, e che la speranza può resistere anche quando tutto sembra perduto.
Nella prospettiva geopolitica, questo messaggio offre una chiave di lettura innovativa. La politica internazionale spesso ragiona in termini di potere, di equilibri e di compromessi. Ma i popoli, con i loro dolori e le loro speranze, chiedono altro: chiedono giustizia, sicurezza, possibilità di futuro. Trasformare il grido in preghiera significa riconoscere che dietro ogni dato statistico e ogni analisi strategica ci sono persone, storie, vite concrete.
Dal Golgota fino alla Terra Santa di oggi, la fede cristiana offre una parola capace di toccare la geopolitica: non un'alternativa ingenua, ma un orizzonte che ricorda come la pace non possa essere costruita solo con trattati e negoziati, ma con il coraggio di un affidamento che diventa impegno concreto.
Così, il grido di Gesù e l'appello ai fedeli si intrecciano: il primo illumina il secondo, e insieme ci ricordano che il silenzio di Dio non è assenza, ma misteriosa vicinanza. In un mondo dove la geopolitica spesso produce solo nuove divisioni, questo messaggio rimane un invito a credere che la speranza può ancora avere l'ultima parola.
Marco Baratto
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