Nel silenzio solenne della chiesa ortodossa siriaca di Mor Ephrem a Istanbul, tra icone antiche e sguardi carichi di attesa, Papa Leone XIV ha pronunciato parole che sono risuonate come eco di una promessa antica: pregare e camminare insieme verso la piena unità dei cristiani. L'incontro, avvenuto a porte chiuse con i capi e i rappresentanti delle Chiese e comunità cristiane, è stato la prosecuzione naturale dello spirito che aveva animato la commemorazione dei 1700 anni del Concilio di Nicea celebrata a Iznik il giorno precedente. Il cuore del confronto è stato chiaro e limpido: ritornare alla fonte del Vangelo dell'Incarnazione, e farlo insieme, come fratelli riconciliati.
Il Papa ha espresso il desiderio che incontri di questo tipo possano moltiplicarsi, coinvolgendo anche quelle Chiese che ieri non sono riuscite ad essere presenti a Iznik. Questo augurio non è un semplice auspicio cerimoniale, ma un invito concreto alla storia: continuare la strada del dialogo, trasformare le celebrazioni in passi reali e condivisi, costruire ponti dove per secoli ci sono stati muri. Egli ha richiamato il primato dell'evangelizzazione e dell'annuncio del kerygma – il cuore del messaggio cristiano – ricordando con sincera amarezza che «la divisione tra i cristiani è un ostacolo alla loro testimonianza». Quando il mondo vede i discepoli di Cristo divisi, il Vangelo perde forza e credibilità.
Significativo è stato anche il contesto. La chiesa di Mor Ephrem, dedicata a Efrem il Siro, inaugurata nel 2023 dopo anni di lavori e interruzioni dovuti a pandemia e terremoto, rappresenta già simbolicamente una rinascita: la prima chiesa cristiana costruita in Turchia dalla fondazione della Repubblica. Un luogo nuovo, libero da stratificazioni storiche, quasi vergine, come se Dio stesso avesse voluto offrire uno spazio simbolico in cui ricominciare da capo.
Al tavolo rotondo sedevano i rappresentanti di molte confessioni cristiane: cattolici, ortodossi, siriaci, armeni, protestanti. Tra loro, a dare il benvenuto al Pontefice, il Patriarca ecumenico Bartolomeo di Costantinopoli, figura chiave del cammino ecumenico degli ultimi decenni. Bartolomeo e Leone XIV si sarebbero incontrati di nuovo, poche ore dopo, al Fanar, la sede del Patriarcato, per la firma di una Dichiarazione congiunta: un gesto che, per quanto simbolico, rientra in quel lento ma inesorabile itinerario verso l'unità.
E qui si innesta la prospettiva più ampia: il Giubileo della Redenzione del 2033, esattamente 2000 anni dalla Redenzione operata dal Cristo. Il Papa ha invitato tutti a camminare insieme verso quella scadenza, con un ritorno spirituale a Gerusalemme, nel cenacolo: luogo dell'Ultima Cena e della Pentecoste, luogo dove Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli e dove lo Spirito Santo unì in un solo corpo gli apostoli. Il suo motto episcopale – In Illo Uno Unum, "In Colui che è Uno, uno soltanto" – è diventato oggi programma ecclesiale e profezia di unità.
In questo orizzonte, nasce la riflessione pratica e concreta: come passare dai simboli ai fatti? Come mostrare che l'unità non è solo desiderio spirituale ma possibilità reale?
Un primo passo – ed è un suggerimento che si sta facendo strada in diverse ed autorevoli voci della cristianità – potrebbe essere fissato già a partire dal prossimo concistoro: decidere che dal 2033 la Pasqua venga celebrata in un'unica data da tutte le Chiese cristiane, seguendo lo spirito di Nicea. Non si tratta di un dettaglio secondario: la Pasqua è il centro dell'anno liturgico cristiano, la festa delle feste, l'annuncio della risurrezione, la vittoria sulla morte. Che la celebrazione del Cristo risorto avvenga in giorni differenti – talvolta con settimane di scarto – è un paradosso visibile che ferisce il segno dell'unità.
Nicea già nel 325 aveva indicato il metodo: una Pasqua comune, calcolata secondo criteri condivisi. Oggi, quasi due millenni dopo, sarebbe possibile ritornare a quell'accordo, magari adottando il metodo in uso alle Chiese cattoliche di rito orientale, basato sul calendario giuliano, o definendo un approccio integrato che possa essere accolto da tutte le confessioni. Non si tratta di decidere quale calendario "vinca", ma di permettere che Cristo sia uno nella celebrazione dei cristiani, affinché il mondo creda.
Questo gesto sarebbe straordinariamente eloquente: un'unica data di Pasqua mostrerebbe che il corpo di Cristo, frammentato da secoli, è capace di ritrovare un ritmo liturgico comune. Sarebbe un passo visibile, concreto, ecumenicamente irreversibile. E, nel 2033, quando le Chiese si riuniranno idealmente a Gerusalemme, nella memoria viva della Pentecoste, potrebbero presentarsi non come molteplici voci in dissonanza, ma come un'unica sinfonia di fede.
Se l'unità nasce dallo Spirito, tuttavia, essa richiede anche scelte coraggiose e realistiche. La storia insegna che grandi cambiamenti iniziano da decisioni modeste ma condivise. Stabilire una data comune per la Pasqua potrebbe essere proprio quel seme: semplice nella forma, rivoluzionario nel significato. Perché, se c'è un solo Cristo risorto, possa esserci un solo giorno di gioia pasquale per tutto il popolo cristiano.
Marco Baratto
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