Un Papa che si fa fratello: Leone XIV e la comunione del primo millennio per la Chiesa del futuro"
Nel discorso di Leone XIV a Sua Santità Mar Awa III e ai membri della Commissione congiunta per il Dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Assira d'Oriente, si coglie con rara chiarezza il tratto più caratteristico del nuovo pontificato: un impegno per l'unità dei cristiani che non nasce da un esercizio di potere, ma da un atto di spogliazione. Il Papa parla non come sovrano della cristianità, ma come fratello nella fede, come discepolo tra discepoli, desideroso di rendere visibile il volto di Cristo che unisce e non divide. La sua parola è teologicamente densa e spiritualmente umile: una combinazione che restituisce all'ecumenismo il suo carattere originario di cammino condiviso, non di progetto istituzionale.
Fin dall'inizio del discorso, il tono è chiaramente paolino: «Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo». Non è un'espressione di circostanza, ma un programma di relazione. Leone XIV sceglie di collocarsi all'interno della dinamica della grazia, ricordando che ogni passo verso la comunione nasce dall'iniziativa di Dio, non da accordi diplomatici. Accogliendo Mar Awa III come "amato fratello in Cristo", il Papa abbandona ogni linguaggio di superiorità o giurisdizione, per assumere invece quello della fraternità evangelica. È il segno di una Chiesa che non pretende di assorbire, ma di ascoltare; non di possedere la verità, ma di camminare nella verità che è Cristo stesso.
Questo stile non è solo retorico: esso incarna un cambio di paradigma ecclesiologico. Leone XIV si muove nel solco tracciato dai suoi predecessori, ma con una consapevolezza nuova del contesto storico. L'ecumenismo non è più un dialogo tra potenze spirituali che negoziano spazi, ma un pellegrinaggio di Chiese che cercano insieme un modo di essere fedeli all'unico Signore. In questo senso, il Papa compie un gesto di "kenosi ecclesiale": spoglia la figura papale di ogni residuo trionfalistico per far emergere Cristo come unico centro. L'unità non sarà dunque il ritorno di tutti a Roma, ma la convergenza di tutti verso il Cristo vivente, presente nelle diverse tradizioni.
La parte centrale del discorso è dedicata a una lettura storica del cammino teologico comune: trent'anni di dialogo che hanno portato a risultati notevoli, dal consenso cristologico fino al riconoscimento reciproco di alcuni sacramenti. Ma Leone XIV non si limita a registrare i successi del passato. Egli rilancia la prospettiva, indicando con lucidità il vero nodo teologico e pastorale del presente: la "costituzione della Chiesa", cioè la forma concreta della comunione. È qui che risuona una delle frasi più forti e più cariche di prospettiva del discorso: «sviluppare congiuntamente un modello di piena comunione, ispirata dal primo millennio, rispondendo al tempo stesso con attenzione alle sfide del presente».
Questa espressione racchiude l'asse portante della visione ecclesiologica di Leone XIV. Il riferimento al "primo millennio" non è nostalgia archeologica, ma memoria teologica. È il tempo in cui l'unica Chiesa di Cristo respirava con i due polmoni d'Oriente e d'Occidente, prima delle ferite dello scisma. Quel modello di comunione, plurale ma reale, fondato sulla reciproca riconoscenza tra Chiese locali e sulla sinfonia delle tradizioni, diventa per Leone XIV un paradigma da riscoprire. Egli non propone un ritorno al passato, ma un'ermeneutica del passato capace di illuminare il presente.
In questa prospettiva, l'unità non coincide con l'uniformità. Il Papa chiarisce che "un tale modello non deve comportare assorbimento o dominazione", ma deve promuovere "lo scambio di doni". È un linguaggio profondamente pneumatologico: la comunione non è fusione, ma circolazione dei doni dello Spirito. Ogni Chiesa, con la sua storia e la sua tradizione teologica, è un dono per l'altra. Così il cattolicesimo e l'assirianesimo non si trovano l'uno di fronte all'altro come due sistemi in competizione, ma come due membra dello stesso Corpo, chiamate a edificarsi reciprocamente "per l'edificazione del Corpo di Cristo" (Ef 4,12).
In questo contesto, Leone XIV si presenta come garante di un metodo, non come detentore di una verità esclusiva. Egli incoraggia la Commissione teologica a lavorare "evidentemente insieme", riprendendo l'espressione cara a Giovanni Paolo II nella Ut unum sint. La piena comunione diventa così non un traguardo imposto dall'alto, ma un processo condiviso di discernimento nello Spirito. È una visione che riflette in modo profondo la dinamica sinodale, che il Papa descrive come "una via promettente per andare avanti".
Il nesso tra sinodalità ed ecumenismo, già messo in luce da Papa Francesco, viene qui reinterpretato in chiave teologica più che pastorale. La sinodalità non è solo una riforma interna della Chiesa cattolica, ma un principio di comunione che trova nel dialogo ecumenico la sua naturale espansione. Leone XIV cita con convinzione la formula: "Il cammino della sinodalità è e deve essere ecumenico, così come il cammino ecumenico è sinodale". In questa circolarità si manifesta un'intuizione profonda: la sinodalità è il linguaggio comune dell'unità, la grammatica spirituale che permette alle Chiese di riconoscersi reciprocamente come sorelle.
Inoltre, il riferimento al 1700° anniversario del Concilio di Nicea offre al discorso una prospettiva profetica. Non si tratta di una celebrazione commemorativa, ma di una chiamata a "mettere in pratica forme di sinodalità tra i Cristiani di tutte le tradizioni". Leone XIV sogna un ecumenismo incarnato, non solo dichiarato: "nuove pratiche sinodali ecumeniche", segni concreti di cammino condiviso, magari nelle opere di carità, nella missione o nell'annuncio comune del Vangelo. È un'ecclesiologia del futuro, ma radicata nel passato più autentico della fede.
Il discorso si chiude con un tono spirituale di grande intensità. L'invocazione dei santi comuni, in particolare sant'Isacco di Ninive, canonizzato di recente nel Martirologio Romano, diventa simbolo di un'unità già vissuta nel mistero della comunione dei santi. Leone XIV intravede nella preghiera e nella testimonianza dei cristiani del Medio Oriente — spesso segnati dal martirio e dalla diaspora — la linfa più autentica di un ecumenismo del sangue, che precede ogni accordo dottrinale.
Infine, l'immagine del giorno in cui "celebreremo insieme allo stesso altare" non è un sogno utopico, ma una speranza radicata nel Vangelo di Giovanni: "perché il mondo creda". L'unità dei cristiani non è fine a se stessa, ma missione evangelizzatrice: il segno visibile che Cristo è presente nel mondo.
Così, in questo discorso, Leone XIV disegna un ecumenismo della spogliazione e della comunione. Un ecumenismo che guarda al primo millennio per ispirare il terzo, e che fa della sinodalità la sua strada maestra. Il Papa non parla da centro che attrae, ma da punto di incontro che accoglie. Non impone, ma propone. Non difende Roma, ma annuncia Cristo. E nel farlo, ridona all'unità dei cristiani il suo vero volto: non progetto di istituzioni, ma mistero di grazia, reso visibile nella carità reciproca e nel desiderio di condividere lo stesso pane, nello stesso amore, davanti allo stesso Signore.
Marco Baratto
Nessun commento:
Posta un commento