martedì 14 ottobre 2025

L’Asse del Rispetto: Il Papa americano e la rinnovata alleanza tra Roma e l’Italia


Il discorso pronunciato da Papa Leone XIV in occasione della sua visita ufficiale al Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, rappresenta un testo denso di significati simbolici e politici. Un intervento che, pur nel linguaggio della diplomazia vaticana, cela una precisa strategia ecclesiale e geopolitica: riaffermare la solidità del legame tra la Santa Sede e l'Italia, nel solco della tradizione, ma con lo sguardo rivolto al futuro.

Sin dalle prime battute, il Pontefice — definendosi "Vescovo di Roma e Primate d'Italia" — compie un gesto di portata teologica e istituzionale insieme. È un richiamo alle radici della sua missione pastorale, ma anche un atto politico: rivendicare il ruolo storico della Sede di Pietro come punto di riferimento spirituale e morale per il Popolo italiano, al di là dei mutamenti globali e delle appartenenze nazionali. Non è un caso che un Papa di origine americana scelga di sottolineare la propria italianità ecclesiale e la continuità con una tradizione che affonda le radici nella storia millenaria di Roma e della Penisola.

In questo senso, il riferimento al suo "venerato Predecessore, Papa Francesco", è molto più che un tributo affettuoso. È la volontà di inscrivere il proprio pontificato nella linea di continuità con un magistero che ha cercato di tenere unito il messaggio universale della Chiesa con l'attenzione concreta ai popoli, alle nazioni, alle identità. Francesco aveva detto, proprio al Quirinale: "Le mie radici sono in questo Paese." Leone XIV riprende quella frase per farne una chiave di lettura del suo stesso rapporto con l'Italia: la Chiesa, pur universale, non è mai disincarnata; essa vive in un contesto, parla a un popolo, dialoga con le istituzioni di una nazione che da secoli è il cuore della cristianità.

L'omaggio reso allo Stato italiano per l'impegno mostrato durante la morte di Papa Francesco e nel successivo Conclave non è mera cortesia diplomatica. È, piuttosto, il riconoscimento di una collaborazione che va oltre la formalità dei protocolli. In quelle parole si intravede la consapevolezza che il rapporto tra la Santa Sede e l'Italia è, e resta, un asse portante dell'equilibrio europeo e mediterraneo. Un asse discreto, spesso silenzioso, ma costantemente attivo nei grandi dossier internazionali — dal dialogo interreligioso alla gestione delle crisi migratorie, dalle relazioni con l'Africa alle mediazioni culturali in Medio Oriente.

Leone XIV, da fine conoscitore della diplomazia americana, sa bene che la Chiesa cattolica non dispone, negli Stati Uniti, di una "sede primaziale". 

Il primato romano rimane dunque il segno distintivo dell'universalità cattolica. Rivendicare il titolo di Primate d'Italia significa riaffermare il nesso originario tra Roma e il Papato, un legame che non può essere scisso senza snaturare l'identità stessa della Chiesa. 

Può anche essere letto come un rivendicare la centralità di Roma nella chiesa cattolica, un messaggio indiretto alla deriva dei fedeli americani che sembrano scegliere Washington a Roma. Che vorrebbero una "chiesa nazionale" lontana da Roma e più vicina al Trono. 

È anche una sottile dichiarazione d'orgoglio: il Papa venuto dall'altra parte dell'Atlantico riconosce, proprio in Roma e in Italia, il cuore della sua missione spirituale.

Il discorso assume, in questa prospettiva, una duplice valenza: pastorale e istituzionale. Sul piano pastorale, il Pontefice invita a "collaborare per il bene comune, a servizio della persona umana", ribadendo un principio cardine della dottrina sociale della Chiesa. Ma sul piano istituzionale, egli afferma con chiarezza la necessità della "reciproca distinzione degli ambiti" tra Chiesa e Stato. Si tratta di una riaffermazione autorevole della laicità positiva, quella forma di distinzione rispettosa che non separa ma differenzia, che non oppone ma integra.

È in questo contesto che va letto il passaggio chiave del discorso: il riferimento al Concordato del 1984, definito non come un "accordo di troppo", bensì come la base solida di una collaborazione matura e rispettosa. Leone XIV "loda e incoraggia il reciproco impegno a improntare ogni collaborazione alla luce e nel pieno rispetto del Concordato del 1984." Queste parole, apparentemente di rito, in realtà hanno un peso politico e teologico. Il Papa riconosce implicitamente che quell'accordo — il frutto del dialogo tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede in un'epoca di profondo mutamento — rappresenta ancora oggi un modello di equilibrio tra libertà religiosa e autonomia dello Stato.

Definendo "Concordato" ciò che giuridicamente è un "accordo di revisione" dei Patti Lateranensi, Leone XIV ne eleva il rango simbolico. Egli rafforza l'eredità del 1984, ponendola in continuità tanto con la Costituzione italiana, che riconosce la libertà religiosa e la distinzione tra i poteri, quanto con il Concilio Vaticano II, che ha ridefinito il rapporto tra Chiesa e mondo moderno. In tal modo, il Papa americano non critica, ma rilancia: riafferma la centralità di un documento che traduce in chiave contemporanea la cooperazione tra due sovranità distinte ma complementari.

L'accenno al centenario dei Patti Lateranensi, che cadrà tra pochi anni, aggiunge una prospettiva storica e programmatica. Leone XIV invita implicitamente a non vivere quell'anniversario come mera celebrazione del passato, ma come occasione per rinnovare l'impegno reciproco verso il bene comune. La Chiesa, dice, non chiede privilegi ma rispetto; lo Stato, da parte sua, trova nella collaborazione con la Santa Sede un interlocutore credibile e radicato, capace di offrire una visione antropologica che mette la dignità della persona al centro dei processi decisionali.

Non va sottovalutato il valore simbolico di questa impostazione: in un mondo frammentato, dove le istituzioni internazionali faticano a proporre un modello di governance etica, l'asse Vaticano–Italia torna a essere un laboratorio di equilibrio. Non solo un'eredità del passato, ma una risorsa per il presente.

Infine, sul piano dello stile, il discorso di Leone XIV si distingue per la sobrietà del tono e la profondità dei riferimenti. L'uso calibrato delle citazioni e l'alternanza tra gratitudine e proposta programmatica rendono l'intervento un esercizio di diplomazia spirituale. Il Papa parla da Vescovo e da capo di Stato, da pastore e da custode di un'eredità millenaria, ma anche da uomo consapevole del ruolo politico che la Santa Sede può esercitare — discretamente, ma efficacemente — nel contesto internazionale.

In conclusione, il discorso del Papa americano non è soltanto un atto di cortesia istituzionale. È una dichiarazione di intenti, una riaffermazione dell'identità della Chiesa in rapporto all'Italia e, indirettamente, al mondo. Leone XIV mostra di comprendere che, in un tempo di transizioni geopolitiche e crisi valoriali, Roma rimane un punto di equilibrio, un centro di gravità morale.

Con le sue parole, egli rinnova il "forte legame" tra la Sede di Pietro e il Popolo italiano, riconoscendo che questo legame non è una reliquia del passato, ma un capitale politico e spirituale da custodire. E, nel farlo, riafferma con fierezza il suo titolo di Primate d'Italia: un titolo antico, ma oggi più che mai attuale, che riassume in sé la missione universale della Chiesa e la sua radice terrena, quella che continua a far di Roma il cuore pulsante della cattolicità.

Marco Baratto

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