di Marco Baratto
il 15 agosto, il mondo tratterrà il fiato. Al vertice internazionale tra Russia e USA — almeno nelle intenzioni — una via d'uscita dalla spirale di conflitti che sta devastando intere regioni. Ma mentre si discute di "cessate il fuoco", "equilibri strategici" e "sicurezza collettiva", c'è una voce antica che si leva da oltre un secolo e che oggi risuona più attuale che mai: quella di Leone XIII.
Era il 1894 quando il pontefice pubblicò la lettera apostolica Principibus populisque universis. A prima vista, un testo rivolto ai governanti dell'epoca; in realtà, un manifesto universale sulla natura della pace e il pericolo della guerra mascherata. In quelle pagine, Leone XIII denunciava con lucidità la falsa tranquillità di un'Europa che si diceva in pace, ma viveva in realtà sotto la minaccia costante delle armi:
"Già da molti anni si vive una pace più apparente che reale. Colte da sospetti reciproci, quasi tutte le nazioni si affannano nella gara febbrile agli armamenti. I giovani… sono costretti ad abbandonare la coltura dei campi, lo studio, il lavoro per prendere le armi. Le finanze degli Stati sono esauste per gli enormi dispendi. Questo stato di pace armata è divenuto intollerabile".
Quelle parole, scritte in un'epoca di fucili a retrocarica e cannoni a polvere nera, sembrano descrivere il nostro mondo di droni armati e missili ipersonici. La "pace armata" — l'illusione che basti accumulare più armi per garantire la sicurezza — era per Leone XIII un vicolo cieco. Non solo perché mantiene intatto il rischio di conflitto, ma perché logora dall'interno le società: svuota i campi, svilisce il lavoro, dissangua le economie, instilla sospetto e paura reciproca.
Ma il Papa non si fermava alla condanna. In quelle stesse righe, anticipava una distinzione che la scienza politica e le relazioni internazionali avrebbero elaborato molto tempo dopo: la differenza tra pace negativa e pace positiva. La prima è la semplice assenza di violenza diretta — una tregua, fragile e temporanea. La seconda è la costruzione di un ordine giusto, in cui le cause profonde della violenza — repressione politica, sfruttamento economico, oppressione culturale — siano rimosse.
E qui sta la modernità sconvolgente di Leone XIII. Nel pieno di un pontificato che, sul piano politico, spesso si scontrava con la modernità liberale e con il nuovo Stato italiano, egli seppe guardare oltre, intuendo che la pace autentica non si può fondare sulla paura e sul calcolo militare. Serve giustizia sociale, serve un ordine internazionale percepito come equo da tutti.
Il pontefice intravedeva persino i germogli di una "globalizzazione buona":
"Mai come adesso, il sentimento della fratellanza umana è penetrato più a fondo negli animi… Con incredibile velocità si travalicano terre e mari, non soltanto per i commerci e le ricerche della scienza, ma anche per diffondere la parola di Dio".
Era una visione profetica di un mondo connesso, in cui il progresso tecnico e scientifico fosse messo al servizio dell'incontro e non del dominio.
Eppure, nel frastuono del presente, quel messaggio rischia di perdersi. Non fosse che, poco più di un secolo dopo, un successore di Leone XIII — Leone XIV — ha ripreso, fin dal suo primo discorso da Papa, la stessa formula: "La pace non può essere armata". Una citazione quasi diretta, che in pochi hanno notato, ma che costituisce un ponte ideale tra due epoche.
Leone XIV, come il suo predecessore, si trova davanti a un mondo diviso in blocchi, attraversato da conflitti e segnato da un clima di sospetto reciproco. Cambiano le armi, cambiano le alleanze, ma il meccanismo psicologico e politico è lo stesso: si accumulano armamenti in nome della sicurezza, ma si costruiscono in realtà le premesse della prossima guerra.
Il filo rosso che unisce i due Pontefici è la consapevolezza che la pace costruita sulla minaccia è una tregua precaria. Perché un equilibrio basato sulla paura è destinato a spezzarsi non appena uno degli attori pensa di avere un vantaggio. E, nel frattempo, le società si corrodono, schiacciate dal peso di bilanci militari sempre più esorbitanti e da una cultura che normalizza il conflitto come strumento di politica estera.
Alla vigilia del vertice del 15 agosto, il rischio è di assistere a una nuova edizione di quel teatro diplomatico in cui si parla di pace senza mettere in discussione il sistema della guerra. Ed è qui che un gesto profetico potrebbe fare la differenza.
Il Santo Padre potrebbe — e dovrebbe — chiedere che il 15 agosto diventi Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace, a partire dai primi vespri. Un momento che coinvolga credenti di ogni fede, perché la pace vera non è monopolio di una religione, ma patrimonio dell'umanità. Non si tratterebbe di sostituire la diplomazia, ma di affiancarla con la forza morale e simbolica di un impegno condiviso, che parli al cuore dei popoli oltre che alle cancellerie.
Il 15 agosto, giorno dell'Assunzione, ha già un valore universale nel calendario cristiano. Trasformarlo in data simbolo per la pace significherebbe iscrivere nel tempo liturgico un impegno che è anche politico e culturale: costruire un ordine giusto, dove la sicurezza nasca dalla cooperazione e non dalla minaccia.
Dal grido di Leone XIII alla voce di Leone XIV, attraversa i secoli un messaggio netto, che non ha perso forza: la pace armata è un inganno; la pace vera è disarmo, giustizia, fraternità.
E domani, mentre il mondo guarda ai tavoli dei negoziati, potremmo scoprire che la più radicale delle proposte non è una clausola in un trattato, ma un invito antico e sempre nuovo: pregare, agire, costruire una pace che non abbia bisogno di essere sorvegliata da un'arma.
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